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Addio a Cesare Pillon, la voce colta e discreta del vino italiano

  • Immagine del redattore: La Redazione
    La Redazione
  • 10 ott
  • Tempo di lettura: 4 min


Giornaloista Cesare Pillon
Giornalista Cesare Pillon


È morto a 94 anni Cesare Pillon, una delle penne più eleganti e lucide del giornalismo enologico. Ha attraversato quasi settant’anni di informazione raccontando il vino come cultura, linguaggio e civiltà.

Cesare Pillon se n’è andato il 7 ottobre 2025, a 94 anni. I funerali si sono tenuti oggi, venerdì 10 ottobre nel cimitero di Pont Canavese, dove è stato sepolto accanto ai suoi familiari. Lo ricordano la moglie Carla, i figli e i nipoti, ma anche generazioni di colleghi e lettori che per decenni hanno trovato nelle sue pagine un punto di riferimento sobrio e limpido per comprendere il mondo del vino.

Una carriera lunga e coerente

Torinese di nascita e veneto per radici familiari, Pillon iniziò a scrivere di scuola, economia e società. La passione per il vino arrivò più tardi, quando comprese che dietro a ogni bottiglia si nascondeva un intreccio di cultura, lavoro e umanità. Da allora, la sua firma è apparsa su testate prestigiose: Il Mondo, il Corriere della Sera, le riviste del gruppo Class,  ma anche per noi de La Madia, fino a diventare poi una presenza costante su Civiltà del bere, di cui fu storico collaboratore e voce autorevole.

Non si definiva mai “critico” o “degustatore”, ma “cronista”. Cercava la storia dietro ogni produttore, il senso di un gesto, il peso di una parola. La degustazione, per lui, era un punto di partenza per parlare di cultura.

L’incontro con Veronelli e la nascita di un linguaggio

Determinante fu l’incontro con Luigi Veronelli, con cui condivise l’idea che il vino non è solo prodotto, ma linguaggio dell’uomo e del territorio. Da quell’intesa nacque il suo stile: uno sguardo umanistico, preciso, ironico e mai enfatico. “Il vino – scriveva – non ha bisogno di essere spiegato, ma raccontato con rispetto”.Pillon aveva il dono di rendere le parole trasparenti, capaci di accompagnare il lettore dentro la vita di chi produceva vino, senza mai invadere o semplificare.

Maestro di misura e di etica

Il suo rigore era noto. Diffidava delle mode, dei punteggi, delle frasi fatte. Scriveva solo di ciò che conosceva, e di ciò che lo convinceva davvero. Per questo i suoi articoli avevano un tono inconfondibile: preciso, colto, ma sempre leggibile.Chi ha lavorato con lui lo descrive come un uomo gentile, curioso e ironico. “Sapeva trattenere il lettore fino all’ultima riga”, ha scritto Luciano Ferraro nel suo ricordo sul Corriere della Sera. “Non era un degustatore né un critico, era un cronista”.

Nel 2018 gli fu conferito il Premio Khail per il contributo alla comunicazione del vino italiano. Ma il riconoscimento più grande era la stima dei colleghi, che lo consideravano un maestro di scrittura e di comportamento.

Le sue opere e la sua voce

Tra i suoi lavori più noti, il Manuale di conversazione vinicola, dove raccoglieva termini, storie ed etimologie legate al linguaggio del vino. Il suo modo di spiegare era ironico e preciso: amava dire che “spumante” è “participio presente del verbo spumare”, una definizione semplice e poetica che riassumeva la sua visione: anche la terminologia tecnica può vibrare di vita.

Scrisse decine di quaderni dedicati ai grandi vini italiani, in particolare alle denominazioni d’origine, raccontate come espressione di territori e di persone più che di disciplinari.Negli ultimi anni collaborava con la rubrica Luoghi (non) comuni per Civiltà del bere, dove rifletteva sui cambiamenti del linguaggio enologico e sui rischi dell’omologazione del gusto. L’ultimo articolo era pronto pochi giorni prima della sua morte.

Un’eredità culturale

Pillon rappresentava un ponte fra due epoche: quella pionieristica del giornalismo del gusto, ancora legata alla carta stampata e ai taccuini, e quella contemporanea, in cui la comunicazione corre sui social.La sua scomparsa segna simbolicamente la fine di una generazione di narratori che hanno costruito il linguaggio moderno del vino italiano — insieme a figure come Veronelli, Soldati, Massobrio, Maroni, Mentasti.

Ma il suo insegnamento resta attuale: non basta descrivere un vino, bisogna capire chi lo fa, dove nasce, cosa racconta. In un’epoca di storytelling e marketing aggressivo, Pillon difendeva il valore della parola vera. Scriveva con lentezza, osservava, ascoltava. E forse proprio per questo i suoi articoli durano ancora oggi.

Un dolore privato e un gesto pubblico

Dietro la sua riservatezza si nascondeva una storia familiare intensa. La morte del figlio Marco lo segnò profondamente. Con la moglie Carla istituì una borsa di studio alla Scuola di Giornalismo Walter Tobagi per sostenere i giovani cronisti, segno di una fiducia mai venuta meno nel mestiere e nella formazione.

Un addio che pesa

Chi lo ha conosciuto ricorda un uomo cortese, curioso, attento ai dettagli, allergico alle esagerazioni. Parlava poco, ma ogni sua frase era scolpita con precisione artigianale.Il mondo dell’enogastronomia perde una voce che ha unito rigore e leggerezza, ironia e profondità. Un giornalista che ha insegnato, con il suo esempio, che il vino non è solo materia da assaggiare, ma cultura da comprendere.

“Il vino – diceva – è un modo per parlare dell’uomo.”Una frase che oggi risuona come un testamento professionale e morale.

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