Luigi Taglienti lascia Piacenza. Il coraggio di dire no.
- Elsa Mazzolini
- 5 giorni fa
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Dopo tre anni, lo chef ligure Luigi Taglienti saluta il ristorante “Io” di Piacenza – progetto nato nel 2022 con grande energia creativa e imprenditoriale – e lo fa senza filtri. Dice: «Manca curiosità per il fine dining. È il momento di dedicarmi ad altro». E in quelle parole c’è tutta la densità di un mestiere che non si esaurisce nella tecnica, ma si alimenta di relazioni, sensibilità, corrispondenze.
Conosciamo Taglienti da molto prima che arrivasse la stella al Trussardi alla Scala. Era il 2002 quando lo premiammo, giovanissimo, al Festival della Cucina Italiana. Lo sentivamo già allora come una delle voci più autentiche e rigorose della nuova cucina d’autore italiana. Oggi, a distanza di oltre vent’anni, dobbiamo prendere atto della difficoltà oggettiva di operare nel settore del cosiddetto fine dining.
A Piacenza, Taglienti aveva scommesso su un luogo e su un’idea. Aveva scelto di portare la sua cucina di ricerca all’interno di un’ex falegnameria trasformata in ristorante nel Monastero di Sant’Agostino. Un progetto importante, personale, costruito con attenzione, senza scorciatoie. Ma il territorio – lo dice chiaramente – non ha risposto con quella disponibilità d’ascolto che un ristorante di alto profilo richiede. «Non ha senso andare in una direzione che non è compresa», osserva. E non c’è amarezza, ma realismo.
Non è un addio, ma una transizione. Taglienti lascia la guida creativa del “suo” ristorante, ma non si sfila del tutto: resta nel progetto, affida la continuità a una brigata giovane da lui formata, che ora porterà avanti una cucina più semplice e tradizionale. Un passaggio di testimone che dimostra quanto questo non sia stato un esperimento fine a se stesso, ma un percorso vero, con radici profonde. Lo chef saluta Piacenza con rispetto: «Mi porto via un bagaglio culturale importante e lascio anche tanto di mio». E questo "bagaglio", fatto di tempo, dedizione e studio, è ciò che spesso il pubblico non percepisce. Ma chi conosce i codici della cucina d’autore sa bene quanto costi, anche in termini emotivi, un progetto come “Io”.
Il futuro? Lo immaginiamo già. E lo immagina anche lui. Milano lo chiama, e lui risponde: «Ho voglia di tornare a casa. Sono pronto a scommettere su Milano anche a livello imprenditoriale». Parole chiare, pronunciate senza retorica. La città che lo ha visto affermarsi – prima al Trussardi, poi al Lume – forse è pronta ad accoglierlo di nuovo, in una nuova forma. Intanto, continuano le sue consulenze, gli eventi, i pop-up. Continuerà a raccontare la sua cucina – colta, elegante, radicale – ovunque ci sia orecchio per ascoltarla.
Chiudere un progetto non è una sconfitta. È, come dice lui stesso, «prendere consapevolezza della necessità del nuovo». E noi, che da anni osserviamo il cammino degli chef non solo nei piatti ma nei gesti, nei silenzi, nelle scelte, riconosciamo in questo passaggio una lezione di maturità e l’umiltà di capire onestamente quando mettersi in discussione.
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